MIMMO LOCASCIULLI
Aria di famiglia
di Paolo Carù
Mimmo Locasciulli è uno dei pochi cantautori italiani che ho sempre seguito. Nella sua musica c’è qualche cosa, ad esempio l’uso continuo del pianoforte, che mi ha sempre attratto e che, nel contempo, lo ha reso abbastanza unico nel panorama italiano.
Ha una discografia corposa, quattordici album in quasi vent’anni, alcuni decisamente belli, altri più di routine: ma qualunque cosa si possa pensare di Mimmo, è inequivocabile che ci troviamo di fronte ad un autore vero, di caratura internazionale.
La strumentazione, piano in primis, è semplice ed equilibrata, mentre le canzoni hanno un’impronta molto personale.
Prendiamo le prime due di questo nuovo lavoro: Aria di famiglia ha la tipologia delle composizioni italiane (che spesso si assomigliano l’una all’altra) ma ha un suono più rock con il piano che fa il controcanto alla voce, oppure la splendida Piccola Luce che ha il tempo di una vecchia canzone di Conte, con un Mimmo che giganteggia al piano che, voce a parte, è lo strumento guida del disco.
Le variazioni melodiche di Mimmo mi ricordano certi lavori di fino che un grande come Nicky Hopkins era solito fare un paio di decadi fa. L’intelligenza dell’autore sta proprio nel saper mischiare,in modo assolutamente naturale, la vena melodica tipicamente italiana con un suono che italiano lo è ben poco. Ed i risultati gli danno ragione.
Aria di famiglia è un doppio album in cui l’autore ripercorre la sua carriera. Venti dei suoi brani più noti e quattro canzoni nuove, il tutto registrato di nuovo in album doppio che costa come un singolo: una bella operazione che certamente darà parecchie soddisfazioni all’autore.
Il doppio album ha anche una ulteriore divisione: il primo Cd contiene il meglio degli anni ottanta, mentre il secondo riguarda la produzione degli anni novanta.
E, come spesso succede per gli artisti stranieri, Mimmo ha diversi ospiti che lo aiutano a realizzare la sua opera: Enrico Ruggeri, Francesco De Gregori, Paola Turci, Andrea Mirò, Paolo Fresu, Stefano Delacroix, Marc Ribot ed il bassista americano Greg Cohen, già collaboratore di Tom Waits. Aria di famiglia è un lavoro corposo, supera ampiamente i centodieci minuti e contiene alcune canzoni che hanno segnato la nostra vita. Il suono delle campane, composta con De Gregori nel ’95, una ballata malinconica dal suono soffuso con un uso continuativo del piano (fatto costante in tutto il lavoro) che dà maggiore spessore alla canzone.
Due amiche, che risale al 1991, con la voce particolare di Andrea Mirò che dà un’altra dimensione al brano oppure Ballando, 1989, che richiama Paolo Conte ed ha una aria jazzy e bohemien grazie all’apparizione di Paolo Fresu alla tromba.
Pao appare anche nella mossa Una vita che scappa, sempre dell’89, che ha un tema completamente diverso dalla precedente.
Non mancano ovviamente vecchi classici come Tango dietro l’angolo (’91) o Confusi in un playback (‘85), la splendida Piccola luce (’80), Svegliami domattina (’82), una delle canzoni che ho amato maggiormente, riproposta in una versione di oltre sei minuti tutta giocata su raffinati giochi di chitarra e pianoforte e basata su una linea melodica di indubbia bellezza. Altre canzoni degne di nota: Qualcosa farò (’95), La pioggia e l’esilio (’95), Povero me (’92), Il giorno più difficile (’91), Buona fortuna (’85) e la divertita Topi, muri sporchi e lamé (’94).
Le quattro canzoni nuove.
Aria di famiglia riprende le tematiche classiche di Locasciulli, con quell’aria triste e disincantata tipica della sua scrittura e l’uso scintillante del piano a dare più corpo alla composizione.
Che fine farò, piccola ed interiore gemma, una composizione intima che gioca su testi molto personali, suonata in punta di dita.
Alice è felice: semplice e lirica, lineare e ben costruita. Ha un ritornello gradevole, un suono fluido, e risulta alla fine una delle più gettonate.
Un giorno qualunque è lenta, rarefatta, ancora triste, ma è la meno interessante delle quattro anche se la parte centrale, grazie al pianoforte, esce allo scoperto in modo personale.
Un disco intenso, lungo e mai monotono, da parte di uno dei migliori cantautori italiani. Un musicista atipico, da tenersi ben stretto. Locasciulli è uno dei segreti più belli e meno conosciuti della nostra musica.
Buscadero n° 237 – Luglio/ Agosto 2002
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COMPAGNO DI VIAGGIO,
CANTORE DEL TEMPO
Mimmo Locasciulli e la poetica della luce semplice
di Isabella Maria Zoppi
Come diceva il filosofo illuminista Diderot, le parole sono lampi che illuminano la verità delle cose. Le parole che un uomo scrive per sé e che sceglie di cantare illuminano il paesaggio interiore e ricompongono da mille tessere una versione della verità che corrisponde alla propria visione del mondo. Le canzoni, le parole di Mimmo Locasciulli sono boe colorate, segnali di fumo, lettere di passione, foto ricordo, appunti stracciati e ricomposti nel luogo della memoria e della musica. Ironia, tenerezza, indignazione, allegria. E malinconia della testimonianza, e speranza nella costruzione del futuro - nella Piccola luce (1980). Sono trame minime che rivelano un’esistenza bilanciata tra esperienza e riflessione, rispecchiano le piccole grandi verità di una poetica del quotidiano, raccontano di una storia che va letta e riletta come si guarda andare e andare, ancora, l’acqua di un fiume, come se la voce che ci accompagna fosse un poco anche la nostra, come se l’occhio che ci dipinge ci vedesse anche le ossa e gli anni, come se la melodia ci chiamasse perché già sapeva il nostro nome. In fondo, chi può vedere che "Dietro la faccia delle persone /c’è una nave che parte, una buona occasione" (La faccia delle altre persone, 1985), è un artigiano di parole che non si rifugia in una visione del mondo esclusiva, ma coltiva il dono di forgiare dall’intensità del singolo la realtà dei molti. L’analisi del corpus dei testi scritti e cantati da Locasciulli in quasi trent’anni di carriera rivela una notevole unità di intenti e di espressione, rimasta intatta anche dove la maturità e l’esperienza hanno mitigato la freschezza e l’immediatezza delle prime prove. La sua scrittura è un esempio di come la coerenza di un bello spirito e di una buona vita possano nutrire e arricchire costantemente la creatività di un talento. Tutto scorre collegato da un filo di intima armonia: l’esistenza dal principio è un itinerario da tracciare senza esitazioni o rimpianti -"prenderò le mie valigie / le mie armoniche i miei libri / e punterò in un’altra direzione" (Quello che ci resta, 1977) - e la mobilità è un destino che porta la valenza della coralità, della comunicazione - "tu mi volevi vicino io sapevo di andare lontano [...] e tanta gente ancora da incontrare" (Piccola luce). Nella ricerca di un confronto si esplora il senso del percorso, o dell’attimo - "così a volte si cede a qualcuno / che ci porta a volare lontano" (L’inganno del tempo, 1995) - anche quando finiscono le parole, quando il senso del vagare può essere dato solo dal vagare stesso, perché "Non c’è niente che porta dalle parti del niente / non lo so ma non serve parlare / non ci sono risposte o domande / e capire può farci anche male" (Stella di vetro, 1998). E se c’è un tormento, il guizzo del serpente o la lacrima sospesa "mezza dentro e mezza fuori pronta per uscire" (La vita in tasca, 1983), il dinamismo resta la regola, la difesa, la rivincita, l’affermazione - "Vado avanti e indietro già da un pezzo / senza rete senza più dubbi addosso" (Tutto bene, 1991)- e in ultimo c’è sempre un’energia segreta e vibrante che punta al domani: "Ma Dio solo sa quello che ho dentro e perché sto correndo! E non posso fermarmi qualcosa farò" (Qualcosa farò, 1995). Vista da una prospettiva trasversale, l’opera di Locasciulli si dipana nel tempo come se il linguaggio e la voce, legati indissolubilmente da una naturale coesione tra registri linguistici e timbro vocale, costituissero l’insolita trama di una partitura musicale che non si legge su un pentagramma, una partitura disseminata di espressioni simboliche che traducono lo sforzo di decifrare e dominare un destino sfuggente, sintetizzando in un pugno di immagini costanti le influenze dell’inconscio e della coscienza e le forze, conflittuali o costruttive, impegnate nel continuo processo di armonizzazione tra l’artista e l’uomo. Per dirla con il filosofo Jean Cheva1ier, "Il pensiero simbolico procede per esplosione dell’uno verso il molteplice per far meglio percepire, in un secondo tempo, l’unità di molteplice". L’universo simbolico di Locasciulli disegna l’unità di un immaginario ricco e articolato, ma coltivato principalmente attorno alla cifra del movimento. Nell'arco degli anni, intrecciato strettamente al tema del tempo, si snocciola il rosario delle figure iterate e ritmanti, che vede incrociarsi Il treno della notte (1980) "una corsa magica di un tram" (Questa illogica follia, 1987) "una nave che non fa ritorno" (Svegliami domattina,1982),"navi in bottiglia scivolate via" (Intorno a trentanni, 1982) "tra ombrelli che corrono, taxi e metrò" (La pioggia e l’esilio,1995), sotto un cielo distratto solcato da un' "aquila confusa" che prende il volo (Tra lo Utah e Tel Aviv, 1975), mentre "in fondo alla notte si perde un aeroplano" (Cala la luna, 1982). Nella notte l'Io narrante, vate della semplicità e vagabondo dello sguardo, raccoglie visioni di luci propizie al viaggio, avvicina le distanze e le mescola nel rilanciare le carte per una nuova avventura della quotidianità del giorno dopo. Così la luna si trasforma in "crocerossina del cielo, fiaccola di mezzanotte", e una donna, o un segreto, o un ricordo diventano una stella di vetro - e "puoi metterla sotto il cuscino". Con una lirica piana e familiare, resa tipica dall'alternarsi di cadenze familiari e improvvisi scarti poetici, i testi dell'artista abruzzese raccontano una pacata urgenza del dire che comprende in un unico sguardo il cammino e la riflessione. La ricerca dell'identità richiama un'affermazione collettiva di passaggio e metamorfosi- "siamo noi siamo noi / polvere e vento dietro l'angolo/ ritmo implacabile del pendolo" (Siamo noi, 1991)- che richiede la costante conferma della sopravvivenza della singolarità- "per niente e per nessuno truccare il passaporto" (Le cose normali, 1985)- mentre l'individuo si inventa come testimone degli affetti, del tempo e del luogo, che sia una fuga oltre le colline dell'infanzia, una corsa "con la mia macchina a tutto gas/ in lungo e in largo per le vie della città" (Piove e non piove, 1983) oppure l'occasionale rifugio in "qualche posto lontano/ che uno ci passa e poi/ non ci ritorna più" (Un altro giorno, 1980)
Mimmo Locasciulli è un visivo, un osservatore. Un viaggiatore e un cantore. Il poeta di un navigare comune della vista e della mente - e delle dita sul pianoforte. Se, come diceva Marcel Proust, il vero viaggio di scoperta non consiste nel cercare nuove terre, ma nel vedere con occhi nuovi, questo cantastorie è un capitano di lungo corso, un fabbro di canzoni da compagnia a cavallo tra il tempo e lo spazio, tra il tocco e il ricordo, tra il segreto e il racconto, tra il bicchiere e la sigaretta e il cappello e il passo, una mano in tasca e una mano sul cuore. "E datemi solamente un'ora da ricordare/ Sarà la mia fortuna" (Al fiume, 1977).
L'isola che non c'era - n°27 Ottobre 2002
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Storia di un professionista dilettante
di Enrico Deregibus
Gli si sono ingrigiti i capelli, è diventato dirigente responsabile di un reparto di chirurgia, ha smesso di fumare. Sta, adesso, intorno ai cinquant’anni. Ed ha ancora intatto quel trasporto da ragazzo verso la musica e le canzoni, "l’entusiasmo di un dilettante e la personalità di un inconfondibile professionista" come vergava anni fa su Ciao 2001 Riccardo Rinetti (che poi è diventato suo produttore).
Domenico (Mimmo) Locasciulli è nato il 7 luglio 1949 in una cittadina in provincia di Pescara, Penne, secondo di quattro figli. "Quattro peccati di gioventù che se ritorno indietro io non li faccio più" farà dire in Dolce vita a suo padre, di mestiere veterinario, e "quattro pezzetti di grazia di Dio che se ne avanza uno me lo prendo io" alla madre, insegnante.
Il padre, come anche il nonno, ha la passione della musica. L’erede, a quattordici anni, già suona in gruppi e gruppettini beat, come ce ne sono tanti sparsi negli anni sessanta italiani. Verso la fine del decennio inizia a mettere meglio a fuoco la sua identità musicale, dandoci dentro con folk-rock americano e similari. A Perugia, dove si è trasferito per studiare medicina, amplia gli orizzonti conoscendo ragazzi stranieri, traduce pezzi di Dylan e, intorno ai vent’anni, inizia a scriverne di suoi, con nelle orecchie Guccini e altri cantautori nostrani. Nel 1970 si fa le notti suonando pianobar.
L’anno dopo si sposta a Roma per terminare gli studi e finisce nella leggenda del Folkstudio, dove già bazzicano De Gregori, Venditti e compagnia. Si propone a Giancarlo Cesaroni, il deus-ex-machina del locale, che lo fa suonare la domenica pomeriggio (primo gradino), poi la sera insieme a Giorgio Lo Cascio e Stefano Rosso (secondo gradino) ed infine con un concerto solo suo (terzo gradino).
"Quando mi presentai per la prima volta al Folkstudio mi portai la mia chitarra dentro ad una custodia di cartone: l’avevo appena comprata e non sapevo che lì c’era un piano che invece era il mio primo, unico e vero strumento. Con la chitarra sapevo suonare solo sette accordi e mi aiutavo spostando il capotasto a seconda delle tonalità, ma suonando sempre in chiave di do. Non ero un chitarrista ma avevo uno stile particolare nella pennata. Cantai tre canzoni (una mia traduzione di una canzone di Dylan, una canzone di Jacques Brel, Quella gente là, e una mia composizione) e siccome la cosa piacque, continuai per moltissimo tempo a suonare la chitarra: e lo feci anche sul mio primo disco Non rimanere là che è un disco solo voce e chitarra. Quando poi, un po’ alla volta, cominciai a suonare anche il pianoforte si creò un certo stupore perché tutti credevano che io sapessi suonare soltanto la chitarra".
All'inizio il decrepito pianoforte del Folkstudio è a muro e il Nostro deve suonare spalle al pubblico. Non ci sono microfoni e cantare rivolti al muro rende impossibile la comprensione dei testi. "Antonello non ha problemi" gli diceva Cesaroni quando lui si lamentava. "Sì, ma lui ha una voce che spacca i muri" gli rispondeva. Col tempo riesce a convincere il patron a girarlo, quel benedetto pianoforte e, poi, a permettergli anche di cantare col microfono. Altro successo personale.
Intanto De Gregoni e Venditti iniziano a vender dischi ed è inevitabile che la RCA, la loro casa discografica, metta gli occhi anche sugli altri rampolli del locale romano. Ed anche su Locasciulli, che però rifiuta. Ha altro in testa: c’è in ballo un progetto di Cesaroni, quello di creare l’etichetta del Folkstudio e far incidere dischi ai ragazzi più interessanti. La scommessa non è da poco. E il primo lavoro pubblicato è proprio il suo. Siamo nel 1975. Si intitola Non rimanere là: come dicevamo si va di voce e di chitarra acustica, timorata di Dylan e Dischi del Sole. "Quando penso a quel disco provo molta tenerezza e molta nostalgia. Avverto un senso di vulnerabilità e di ingenuità, insieme ad una certa impalpabile pulsione eroica, come se vivere quell’ambiente, quelle atmosfere e quei tempi mi stesse destinando a qualche ruolo di privilegio ma nello stesso tempo mi stesse ponendo su un piedistallo d’argilla; però c’era molta amicizia nel Folkstudio, molta complicità, molta solidarietà umana e soprattutto un senso di appartenenza che mai più ho ritrovato in ambienti successivi. Non so se il senso di purezza che si respirava fosse giustificato e sufficiente, ma tanto mi bastava e mi basta: essere parte integrante di un qualcosa (idea, spirito, azione, progetto, 'modo') che emanava una sensazione di unicità e di esclusività"
In quell'album (da poco ristampato dalla Piccola Luce, la casa editrice di Locasciulli) c’è un gran candore e una grande ingenuità, con una vocina educata e testi agresti che tradiscono i natali abruzzesi. La distribuzione (affidata alla Fonit Cetra) praticamente fu presssoché inesistente.
Locasciulli passa alla RCA, con cui pubblica Quello che ci resta. Dietro stavolta ha una band con, ad esempio, Roberto Gatto ed Enrico Pieranunzi al pianoforte. Mica poco. L'album, folkeggiante e ancora vittima di una certa inesperienza, lascia intravedere qualcosa di quel che verrà. Le vendite sono scarse e, come se non bastasse, Locasciulli propone alla RCA, per il successivo, cose poco digeribili e politicizzate come una poesia di Brecht. L' arrivederci e grazie è inevitabile.
A questo punto della storia c’è una piccola metamorfosi. Locasciulli, libero da morse discografiche, resetta e inizia a fare altro.
Si mette al pianoforte con convinzione e con quel suo particolare tocco sui tasti. Nascono nuove canzoni. Ne fa ascoltare una, Piccola luce, a De Gregori, che apprezza molto sia il brano che lo stile pianistico del Nostro. Lo riporta alla RCA da Ennio Melis, uno dei discografici più illuminati che la storia musicale italiana ricordi.
E' così che nel 1980 il dottore viene messo alla prova discografica con un Q-disc, ovvero una via di mezzo tra 45 e 33 giri, intitolato frugalmente Quattro canzoni di Mimmo Locasciulli, prodotto da De Gregori in persona e registrato in un solo giorno. Dove prima c’era chitarra acustica ora c’è pianoforte, Locasciulli è maturato e ispirato, ed ha scrittura, voce, atmosfere e temi nuovi, e una novità è anche il buon riscontro di vendite. Il dado è tratto. Fra le canzoni piace ricordare Un altro giorno, lenta, sinuosa e con un climax avvolgente.
De Gregori lo scrittura anche come pianista-tastierista a partire dalla "toumée del pulmino" del 1981. I due si scambieranno favori e feeling per quattro dischi, due a testa. Intorno a trentanni e Sognadoro di Locasciulli e Titanic e La donna cannone di De Gregori. Fatto salvo l’innegabile carisma artistico di quest’ultimo, è inevitabile che in questi lavori le assonanze tra i due siano molteplici, visto anche che gli strumentisti sono più o meno gli stessi.
Intorno a trentanni, del 1982, è un gran disco, delicato, degregoriano nel senso appena detto, con ogni cosa al suo posto e un mazzo di otto belle canzoni prevalentemente notturne, come Cala la luna, una delle composizioni più belle che sian capitate al dottore, ma non solo. Ricordiamo almeno Natalina, che più passa il tempo e più ne scopri l’intensità, la saltellante Buoni propositi e, appunto, Intorno a trentanni, canzone che è andata oltre la canzone, fino a diventare modo di dire. "Scrivere una canzone è come guidare una macchina da ubriaco, sai da dove sei partito, è difficile capire dove vai a finire. Ad esempio Intorno a trentanni era una canzone di protesta, di incazzatura piena sul girare la pagina 29-30, contro l’ingresso nei trent’anni. Ed è diventata completamente un’altra canzone, di riflessione su una generazione. Un giornalista mi ha detto ‘adesso, quando canti quella canzone, dovresti dire intorno ai cinquant’anni’. No, invece, è brutto, così tradirei, perché la canzone non parla dei cinquantenni ma dei trentenni. Ma i trentenni di allora sono diversi dai trentenni di oggi’ ha ribattuto lui. Infatti io ora dico '..che raccontammo con presentimento' e non '.. che raccontiamo'. Altrimenti diventa anche patetico".
E Intorno a trentanni va bene anche nei negozi di dischi. Passa un annetto abbondante e c’è il bis. Si chiama Sognadoro e riconferma la qualità (diciamo pure la classe) raggiunta da Locasciulli, ampliando il campo visivo dal punto di vista stilistico. "I miei discografici di allora (la mia casa era la RCA) forse avrebbero voluto che il disco successivo fosse stato una specie di copia di Intorno a trentanni, perché in effetti la cosa stava funzionando. Solo che quando venne pubblicato io stavo già lavorando a Sognadoro ed il taglio era abbastanza diverso. C’è poi da dire che probabilmente non sono stato (e non sono) così bravo da intuire le convenienze e scrivere di conseguenza. Mi pare però che Sognadoro sia stato ampiamente ricompensato da buoni apprezzamenti, anche le vendite non andarono male pur senza il verificarsi di quel famoso scatto che ti permette il salto di categoria. Però oggi, più esperto e più smaliziato, rifarei le stesse scelte e ricoltiverei la stessa smania di non ripetermi".
Apre l’album quel giocattolino di canzone che porta il nome di Pixi Dixie Fixi, malinconia venata di ottimismo. Uno di quei brani che di tanto in tanto fa bene ascoltare. E chiude Dicembre, soffusa e rattristata di un amore che si vorrebbe non finito, ma che porta dentro gli anticorpi della speranza. In mezzo altri pezzi più che lodevoli, compresa la notevole title-track con testo di De Gregori.
Sognadoro, altro tuffo in un mondo un po’ fatato, di spigoli arrotondati.
Con l’album successivo (Mimmo Locasciulli, 1985) cambiano un po’ di cose. "La RCA decise di mandarmi al Festival di Sanremo. Ero impreparato e dopo tre dischi prodotti da De Gregori era arrivato il momento di cercare soluzioni diverse. Così, pressato dai tempi, decisi di accollarmi in proprio la responsabilità della produzione artistica e degli arrangiamenti. Non feci in tempo a scrivere abbastanza pezzi per riempire un LP, tant’è vero che in quel disco è contenuta una riproposta, Piccola Luce, e Caterina di Francesco, che tuttavia amavo come se fosse stata una mia canzone".
Il brano sanremese è Buona Fortuna. Non è niente di speciale anche se lì in mezzo svetta e permette a Locasciulli di ampliare il proprio pubblico. Il resto del disco soffre di una qualche incertezza in fatto di arrangiamenti e sonorità, ma l’impressione è che lo stesso Locasciulli abbia bisogno di non ripetersi. Non sempre forse trova la strada giusta, anche se vanno positivamente evidenziati alcuni tentativi quasi di sperimentazione.
"A riascoltare quel disco oggi provo due diverse sensazioni: lo meno bella è costituita dalla consapevolezza di non aver saputo fronteggiare tecnicamente la rigidità mentale e professionale che imperava dentro gli studi RCA: avrei avuto bisogno di complicità e slancio invece che di routine e cartellini da timbrare alle 20. La più bella è costituita da quella strana sensazione che devono provare gli uccellini quando volano da soli per la prima volta: è stato molto bello guardare con i miei occhi i miei musicisti per far capire loro quello che volevo e quello che loro potevano darmi. Il risultato dal punta di vista tecnico, forse, non è il massimo; ma grazie a questa folle corsa nel buio ho scritto alcune delle canzoni che più amo (Cara Lucia, La faccia delle altre persone, Non voglio più)".
Anche il brano d’apertura, Le cose normali, è ottimo, una galoppo sostenuto da una ritmica che ricorda da vicino Jokerman di Bob Dylan. Per il resto l’intensa e ispirata Cara Lucia non pare sufficientemente valorizzata, mentre è maiuscola la versione di Caterina, degna dell’originale (ed è uno dei brani più locasciulliani, se così si può dire, di De Gregori). Riguardo al giudizio complessivo sul disco, se permettete, useremmo la solita frasetta che fa fine e non impegna: un album di transizione.
In quell’anno densissimo, Locasciulli produce il disco Gente comune di Roberto Kunstler (che in seguito troveremo a fianco di Sergio Cammariere) e inaugura una collaborazione con Enrico Ruggeri che porta alla composizione a quattro mani di Confusi in un playback, dichiarazione comune di disagio di fronte a certe trovate del music-business. Il singolo dall’altra parte regala Con la memoria, traduzione bella quanto poco fedele di Foreign affair di Tom Waits, ad opera dì Ruggeri.
A settembre il dottore registra un live (titolo ovviamente è Confusi in un playback) che esce poco dopo. Dentro c’è anche il cantautore milanese che duetta con lui nel nuovo brano e in una Sognadoro stirata a rock. Il disco, che raccoglie una decina di episodi degli ultimi album, ha un suono piuttosto grezzo rispetto alla media di Locasciulli. Gli chiediamo se non avesse avuto paura di spiazzare un po’ i suoi ascoltatori, "La mia incapacità di formulare strategie è veramente clamorosa: non mi sono posto alcun problema in tal senso, Quel disco è tale e quale a come fu suonato. D’altra parte un live con suoni diversi da quelli che si ascoltano nel concerto costituisce senz’altro un inganno".
Il lavoro ha un buon impatto in termini di vendite, anche se sparisce presto dai negozi, come farà notare il suo autore. Music-business, appunto. A fine anno nasce anche un tour teatrale della coppia. Riassumendo: un disco interlocutorio e un live nello stesso anno. La domanda ora è: dove andrà adesso Locasciulli? La risposta, nel 1987, è Clandestina, ed è totalmente imprevista. C’è un netto approccio alla musica elettronica, che spiazza molti. Anche lui. "Io non considero Clandestina come una svolta, ma come un momento di curiosità, di esplorazione in territori strani come la musica elettronica. Avevo scelto Mauro Paoluzzi come arrangiatore in funzione di certe cose sue che avevo sentito, come ad esempio Guido piano di Concato, e io mi immaginavo una produzione abbastanza acustica. E invece è successo che, per impegni professionali miei di medico, sono arrivato nel suo studio dopo qualche giorno quando lui aveva già fatto la maggior parte delle stesure. Sono rimasto un po’ perplesso, ma prima di dire sì o no ho pensato 'fammi sentire come va avanti la cosa'. E anche un po’ per inesperienza mi sono lasciato andare sulle ali dell’entusiasmo. Finito il disco però mi sono ripreso tutto, sono tornato a Roma in BMG e ho risuonato molte cose, altrimenti il risultato sarebbe stato molto più estremo. Ho messo molti più strumenti acustici, ho suonato gli organi che non c’erano. Però aver esplorato quel tipo di mondo mi ha fatto molto piacere. Ad esempio mi piace molto Surrender e anche Questa illogica follia che ha quella stranissima sezione fiati, sembra quasi già appartenere alle atmosfere di Tango dietro l’angolo".
E pensare che Clandestina era nato, dal punto di vista letterario, con tutt’altra intenzione Era un disco per certi versi molto carico di istanze romantiche. "Ero impazzito per la storia di Vanina Vanini descritta da Stendhal nelle Cronache italiane. Mi ritornava sempre in mente un film che si chiamava La prima notte di quiete di Valerio Zurlini con Delon, Renato Salvatore e Giannini, che parlava di un professore che aveva una storia con una studentessa. I due vanno pazzi per Stendhal. È un disco con testi molto romantici, con lo stridore di una musica molto di contrappunto, una musica moderna, molto picchiata. L’ho presa come una puntata sull’altra faccia della luna, ma non avrei mai potuto fare un Clandestina bis. D’altra parte però non ho fatto neanche un Intorno a trentanni bis o un Tango dietro l’angolo bis".
In definitiva i suoni sintetici e la ritmica carica che contraddistinguono l’album, nonostante l’intervento in zona Cesarini di Locasciulli, riescono in alcuni casi a sposarsi bene con lo spirito del lavoro. Soprattutto la citata e splendida Surrender (storia romanzata di una generazione e del tempo che fu) pare quasi si nutra di quell’orchestrazione elettronica e assassina, che le dà un sapore decisamente inusuale. Certo, in altri casi qualcosa che non quadra c'è.
Ma il 1987 riserva anche altro al cantautore abruzzese. In autunno al Premio Tenco si esibisce prima di Tom Waits, cantando, insieme a Ruggeri, Con la memoria. Lì conosce Greg Cohen, che del geniaccio americano è contrabbassista e collaboratore oltre che cognato. Vien fuori un rapporto musicale e umano che dura ancora adesso. Nel 1989 Locasciulli si inventa altro ancora per Adesso glielo dico, il nuovo album. Si injazzisce (Prima di chiudere) e si francesizza alquanto, perlustrando stili a lui vicini, ma lasciando totalmente perdere l’elettronica. Anche se l’album pare avere idee non sfruttate appieno, restano diversi gli episodi segnalabili, da Blu a Il silenzio del mare, da Stupida luna a I giorni delle rose, ad Arte moderna cantata con i Cetra.
La sensazione è che il Nostro vada a cercare stili e suoni che non aveva mai usato nei dischi, ma che in qualche modo gli appartenevano intimamente. "E esattamente così: dopo Clandestina avevo deciso di tornare indietro immergendomi addirittura nei suoni e nelle atmosfere di cui mi ero impregnato prima di cominciare a strimpellare nei gruppi beat. I miei genitori ascoltavano buona musica (da Aznavour a Edith Piaf da Nat King Cole a Frank Sinatra, da Natalino Otto al Quartetto Cetra) e così mi sono lasciato andare a quei sapori tanto demodé. Reputo Adesso glielo dico uno dei miei dischi migliori e ancora oggi rivivo la bellezza della giornata passata a registrare Arte moderna e con i Cetra". Nello stesso anno vien fuori anche un tour da buongustai. Locasciulli e Cohen insieme, e da soli, a girare teatri e fumosi locali italiani, a reinventare e scarnificare arrangiamenti, a suonare qualunque strumento vi venga in mente. Una bella cosa che artisticamente non sarebbe insensato riproporre oggi.
L’attività di produttore continua nel 1990 con l’album Tuttintorno di Gigliola Cinquetti, mentre nel 1991 Locasciulli si toglie uno sfizio di quelli grandi come una casa: fare un album in America con i musicisti di Waits. E alla fine Tango dietro l’angolo di Waits è fradicio fin dentro le ossa, con, ad esempio, la coproduzione di Greg Cohen e la chitarra sublimemente zoppa di Marc Ribot che lo marchiano a fuoco. Le onde stilistiche di Locasciulli s’increspano alquanto, lui magari esagera pure un po’, arrochendo per l’occasione la voce più del solito. Ma resta i il fatto che il livello medio è davvero alto e che ci sono picchi notevoli come Avrò diamanti, Luna vagabonda, Mosche & mosquitos, Il giorno più difficile. Lui non è d’accordo sul fatto di essersi calato troppo nei panni del Waits versione italica.
"No, direi di no. Intanto il mondo di Tom Waits, oltre che di suoni e musiche particolari è fatto di racconti e storie uniche ed inimitabili. Inoltre quella esperienza mi ha dato la piena consapevolezza di quale conquista umana e professionale stessi compiendo nell’attraversare l’Atlantico per lavorare con quegli straordinari musicisti. Era il 1990 e conoscevo la musica di Tom Waits da più di 15 anni. Se avessi voluto scimmiottare il suo personaggio o il suo stile l’avrei fatto molto tempo prima. Per me l’importante era lavorare con musicisti e tecnici in grado di capire il mio linguaggio; avevo bisogno di piloti che conoscevano meglio di me le rotte che volevo percorrere, nella direzione di una musica espressionistica e dissonante. I critici più malevoli scrissero, appunto, che stavo giocando a fare il Tom Waits italiano, forse neanche leggendo i versi delle mie canzoni, o forse non conoscendo quelli di Waits; i più ignoranti (che certamente non sapevano neanche chi fossero gli Uptown Horns o Marc Ribot) scrissero che gli strumenti erano stonati (!); quelli senza vergogna alcuni anni dopo applaudirono alla geniale novità di Capossela (che detto per inciso è uno dei miei artisti preferiti) arricchita dalla strabiliante presenza di Marc Ribot. Molti dei musicisti italiani, che hanno partecipato a quel lavoro e che mi hanno accompagnato nei tour europei che seguirono, mi esprimono stima e gratitudine per quella esperienza per loro unica. E poi, alla fine, le critiche sciocche passano, gli esempi restano".
Da questo momento si diradano molto le pubblicazioni di brani inediti. Con il 1992 Locasciulli, intorno a quarant’anrti, riporta tutto a casa e decide di mettere in un album un bel po’ di suoi vecchi brani, risuonandoli alla luce dell’esperienza newyorkese. Sempre con al fianco Greg Cohen nasce Delitti perfetti che insieme a due buoni inediti pone quelli che sono ormai dei piccoli classici, da Cala la luna a Intorno a trentanni, sino alla vecchissima Alone. Il risultato è buono, anche se a volte il Nostro si fa un po’ prendere la mano nel giocare con i rumori. Nello stesso anno si avvicina al teatro componendo le musiche per Jack lo sventratore di Vittorio Franceschi, con Alessandro Haber, che incrocerà diverse volte d’ora in poi. Nel 1993 fa un tour in Giappone con Gigliola Cinquetti, da cui viene tratto il doppio CD Live in Tokio.
La storia di questa collaborazione è interessante: "Nel 1991 produssi un disco di Gigliola Cinquetti (Tuttintorno) contenente sette mie canzoni (tra cui Due amiche e Luna vagabonda), due pezzi di Enrico Ruggeri (Prima del temporale e Notte di stelle) e Abbassando degli Avion Travel (ancora sconosciuti). Era un buon disco, di musica d’autore, cantato da una grande interprete. In Italia, naturalmente passò inosservato ma destò un certo interesse in Europa ed in Giappone. Seguì una lunga e fantastica tournée giapponese, con una band eccezionale che ho avuto il piacere di dirigere (Greg Cohen, Stefano Senesi, Massimo Buzzi, Massimo Fumanti...) e con programmi da sogno: venti stupendi teatri, due concerti trasmessi dalla prima rete televisiva giapponese e un live da realizzare nell’ultimo concerto, appunto a Tokio. All’interno dello show mi era riservato uno spazio da solista che tuttavia (per ragioni contrattuali con la mia casa discografica) non doveva essere incluso nel disco. La casa discografica giapponese, dopo la nostra partenza, non tenne fede agli impegni presi e stampò il disco (doppio) senza un missaggio accettabile, inserendo tra l’altro tutti i pezzi eseguiti in concerto, comprese le canzoni interpretate da me. In Italia ed in Europa il disco è uscito dopo quasi due anni, con un missaggio diverso (e migliore) e senza le mie canzoni".
Siamo al 1994. Locasciulli produce l’album Ribelli di Stefano Delacroix e scrive la colonna sonora del film La vera vita di Antonio H di Enzo Monteleone, interpretato da Haber.
Nel 1995 esce il nuovo disco, Uomini (ma che in origine avrebbe dovuto chiamarsi Il cane). Dentro trovano posto, fra le altre, Il suono delle campane, scritta e cantata con De Gregori, e la bella e sanguigna Qualcosa farò. E poi una canzone straordinaria che si staglia per bellezza e misura: La pioggia e l’esilio. Musicalmente l’album non presenta novità sostanziali, riprende piuttosto stilemi del Locasciulli più classico. "Uomini, che pure a mio avviso è un bel disco, è un ritorno a quelli che erano stati i miei moduli ai tempi del folk-rock. È stato più un tributo al mio passato che una finestra sul futuro".
Praticamente in contemporanea con il suo disco Locasciulli dà alle stampe, in veste di discografico, produttore e arrangiatore, un album di rara vitalità e corposità. E l’esordio come cantante di Alessandro Haber, il titolo è Haberrante e contiene anche La valigia dell' attore che l’autore De Gregori si riprenderà qualche tempo dopo in un disco live. L’album è magnifico, per la voce sporca e pulsante di Haber, per il valore dei brani, ma forse soprattutto per la mano d’arrangiatore e produttore di Locasciulli.
Nel 1996 è la volta della produzione di Fragole & Pugnali di Goran Kuzminac. Poi due anni dopo arriva Il futuro, un album decisamente particolare nella discografia del Nostro. Son (quasi) tutte cover di pezzi grossi della musica anglosassone: da Dylan a Tom Waits, da Leonard Cohen a Randy Newman, da Elvis Costello a David Byrne, da Willy de Ville a Neil Young. In Powderfinger di quest’ultimo c’è un duetto con tal Cereno Diotallevi, che non è altri che il solito De Gregori, il quale dà una mano all’amico anche in fase di composizione smazzandosi le traduzioni di Cohen e Dylan.
È venuto fuori un buon lavoro di traduzione e produzione musicale. Ma noi vorremmo consigliare soprattutto le canzoni proprie che Locascìulli ha messo in questo album, Stella di vetro e Come viviamo questa età, brani di alta manifattura che fan venir voglia di ascoltare un album tutto di inediti del dottore, piuttosto in forma dal punto di vista compositivo.
Ma per qualche anno si dedica più che altro al ruolo di produttore. Nel 1998 per Viaggio in Italia di Claudio Lolli e La legge non vale di Stefano Delacroix, nel 1999 per Qualcosa da dichiarare di Alessandro Haber. E intanto scopre che i paesi di lingua tedesca sono molto interessati alle sue canzoni.
In mezzo al 2002 arriva una nuova incisione discografica, Aria di famiglia, un doppio CD antologico (i pezzi sono risuonati ma spesso molto simili agli originali, e quindi è perfetto per chi vuole accostarcisi) con due inediti, Aria di famiglia, con il testo di Ruggeri, e Alìce è felice. E, di nuovo, son canzoni davvero belle.
Insomma sarebbe ora di un disco interamente inedito. Lui ne ha parecchi, e scalpitanti, di pezzi nuovi, Il prossimo anno dovrebbe essere la volta buona.
L'isola che non c'era - n°27 - Ottobre 2002